Ti ritroverai (lettera agli altri ragazzi adottati)

Espérance Hakuzwimana
7 min readMar 3, 2020

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“Ti ritroverai”

È la prima e unica cosa che mi viene da dirci ché è pure l’ultima con cui mi addormento io la sera. Insieme alla pioggia finta che cura per davvero e una lista di nomi che mi ripeto in testa per non sparire, per non sbagliare, per non rischiare che sia stato tutto inutile, che non sia sia stato amore.

Figli di un figlio fiero di noi o ignaro a sua volta e dei respiri che abbiamo dato al mondo.
Figli di una figlia tremenda o fragile che ci ha tenuti per quella cosa che è vita, per un secondo.

Ti ritroverai ragazzo, amico, compagno di banco e vicino di autobus.
Ti ritroverai perché sono anni che lo chiediamo allo specchio e quello non ci risponde, e quello ci confonde.
Noi meraviglia tra le meraviglie con i tratti somatici giusti sul suolo sbagliato. Noi che volevamo essere adatti e invece siamo stati voluti.
Ma volere non è un verbo che abbiamo coniugato noi, e le porte aperte dei miracoli se potessimo a volte le sbatteremmo forte e invece le guardiamo attoniti. Bellissimi al sole, lontani da ore, feriti.

Ti ritroverai bambina, moglie, collega e figlia desiderata.
Ti ritroverai anche se i baci che daremo a volte saranno vetro e lacrime, foglie secche e pareti altissime.
Noi meraviglia tra le meraviglie con tutto a posto tranne che per quel misero puntino. Noi sorridenti e pieni di speranza e gli altri sempre e solo a farci andare a capo. “Si dice così? Si scrive così? Si pronuncia così?” — e nel cuore solo fumo.
Ché diverso non è chi lo dice ma chi cerca di tenerlo per sé e non ci riesce mai, come noi senza risposte adatte ma una rabbia che plasmata a nostro bisogno e somiglianza. Sgangherata, fastidiosa, sacra.

Essere umano identico a tutti gli altri e per questo pregiato e delicato, ferito e malconcio, resistente e pronto a tutto.
Vita incredibile e normalissima, passata da una ferita sempre aperta al sogno e al segno che si compie in ogni atto.

Settimane e mesi, a volte anni e altre ancora vite intere- quelle degli altri che ti passeranno davanti e ti daranno tutto. Mi sento di dirci che ci vorrà questo. Perché a volte le cose per arrivare a destinazione i giri immensi li fanno per davvero. Come noi che abbiamo un documento che ce lo ricorda, dei vestiti nell’armadio che ce lo ricordano e i libri sul comodino, una chiamata persa di nostra madre, il nostro partner compagno in cucina, la televisione accesa su La7, l’esame di storia medievale e un sabato sera in arrivo che ce lo ricordano costantemente. Sempre lì; lucenti e spettacolari. Proprio come i nostri occhi che volevano vedere tutto o che ignoravano le differenze. Sempre nel giusto; tipo certe bugie bianche e normali mica come noi. Sempre presenti; esattamente come l’amore certo, il calore di una casa, la possibilità di viaggiare dove vogliamo o la certezza di sapere chi siamo.

Aspetta: ma noi chi siamo? Esattamente chi siamo? Cosa siamo? Da dove e da chi? Come è stato possibile? Perché fa così male? Come mai non passa? Perché ce lo chiedono tutti? Perché non smettono mai? Perché non smettiamo noi?

Non lo sapevamo ma a volte le cose crollano sotto i piedi o ci salvano al volo; poco prima di o subito dopo che. Poco prima della cresima, per esempio; che manco volevamo fare ma va be. Subito dopo la prima volta oppure, ma anche l’ultima che a pensarci ora va be. Non lo sapevamo, non ci avevano avvisati, non eravamo pronti, ma ci è successo quando li abbiamo stretti tra le braccia e ci siamo detti “com’è che più lo stringo più mi paralizzo? com’è che più la stringo più mi sento piccolo io?”. In gita alle medie a piangere di notte perché semplicemente avevamo paura di restare soli per sempre. Quando ci è nato il primo figlio e pure il secondo, quando quel nuovo amico ci ha detto sorridendo “ma tu di dov’è che sei quindi?”, davanti alle vetrine dei negozi a Natale oppure a casa mentre la vita accadeva e dentro non lo capivamo, non ci riuscivamo. Ché magari è solo un sospetto, una domanda, quel ricordo sbiadito, una canzone da un altro mondo, una risata da un altro mondo, noi dall’altro mondo. L’altro mondo sì, quello che c’è — certo che c’è — ma che per la maggior parte del tempo facciamo finta di no per sopravvivere. Quello che c’è — potrebbe essere altrimenti? — ma per comodità facciamo finta di no. Ed è un’attitudine ci evita le domande degli altri dai, e pure le nostre risposte atroci e tutti i drammi, le botte, gli occhi lucidi, le foto, i suoni, i flash, gli scorci, i sentimenti, le corse, i pianti, le risate che ci farebbero essere noi, semplicemente e solo noi, ma anche degli sconosciuti.

Figlio di una figlia che ha fatto di tutto, che non ha potuto ma ti ha donato in fondo.
Figlia di un figlio a cui assomigli e di cui niente sai tranne quando stai piangendo.

E farà schifo e sarà pazzesco. E sarà la cosa più forte che, la botta al cuore che non avremmo mai immaginato oppure non lo sarà perché decideremo di metterla da parte per un altro momento, per un altro mese, per un altra vita.
Io non lo so, non lo posso sapere e nemmeno voglio. Sono capitata qua perché a me è accaduto e ci ho impiegato tutti quei giorni, e pure le settimane, i mesi e mi sono pressa anche gli anni. Soprattutto anni di rabbia e di liberazione, di pagine strappate perché non volevo vedere, di pagine incollate male perché pregavo di sapere, di capire, di rimettermi in sesto e poi tornare.
Ed è così che con una lettera mi auguro che possa capitare a tutti noi, in qualche modo. A chi ci sta provando e a chi non ne ha idea, a chi ci ha provato e ci tenta ancora, a chi non ne ha minimamente voglia e a chi ne avrò tra due miliardi di anni.
Ce lo auguro e basta e ci auguro di farlo al meglio.
Ma mica in Congo o in Etiopia o in India. Mica ad Haiti, in Cile, in qualche parte del Brasile o in Russia. Quando dico “ti ritroverai” intendo che in un modo o nell’altro, in un mondo o nell’altro, dovremo tornare da noi. Da quegli stessi noi che abbiamo intravisto o che evitiamo, da quegli stessi noi che amiamo ma non sappiamo bene come fare se non ce lo dicono anche gli altri che non sappiamo bene come fare se non ce lo mostrano prima gli altri. Che poi magari oh, magari per farlo per Buenos Aires ci passiamo pure, all’aeroporto di Asmara ci dovremo fare scalo; poi anche un salto a un parco nazionale come quello di Yala, in una strada affollata piena di suoni e odori come quelle alla tv, negli istituti freddi da fuori con dentro l’acqua congelata, nelle chiese in cui Dio se n’é andato via o in qualunque altro di quei posti da dove veniamo noi, da dove arriviamo noi: in cui le nostre ossa si sono rinforzate, il latte è stato possibilità e grazia, casa aveva un odore inconfondibile e irriproducibile, i suoni sono diventati voci che sapevamo riconoscere e da cui i nostri occhi han preso quel colore lì, quella profondità lì che “oddio ma come fai, che colore è? ma chi è che ce li ha così dei tuoi?”.

Essere umano fortunato e disperato, per qualcosa che non hai creato, per qualcosa che non sai ancora se hai accettato.
Vita invadente e bisognosa e proprio per questo prima di una serie di piani da rifare all’infinito, ancora e ancora e ancora, “e adesso sei riuscito?”.

Ti ritroverai piccola e ingombrante e farà male da morire. E chiederai amore e poi ancore e poi ancora, ancora, ancora e non sarà abbastanza, non chiederai scusa e ti diranno che potrai fare senza.
Ti ritroverai migliore amico e non saprai cosa dire, cosa raccontare. Fratello senza niente in comune se non dei certificati tradotti male o le discussioni origliate prima di andare a dormire, prima di andare a morire.
Ti ritroverai libera e vorrai ancora scappare, solo scappare, sempre scappare. E poi moglie in una notte di miracoli e usanze di carta, scherzi bellissimi e vuoti incolmabili; nel senso che nemmeno l’acqua. Nemmeno tutta l’acqua del mare. E ti chiederanno “sicura?” e tu dirai sì e starai scappando ancora.
Compagno di sventure e vorrai dire “non sai quanto ti capisco” ma starai zitto per non sembrare inopportuno, ma starai fermo per non disturbare nessuno. Dritto, intoccabile e uomo di una forza sconosciuta a te, figuriamoci agli altri; sasso, marmo, animale di una razza sconosciuta a te, figuriamoci agli altri.
Madre, ancora nella bellezza e nello stupore, senza aver capito né come si scrive né da che pagina si inizia. Confidente quando vorresti solo piangere e dire “io come sto non l’ho capito, o qui ho un vuoto”. Distante quando i vuoti ti chiedevano di riempirli gli altri. Adulta, ad anni di distanza, perché le forze le hai sempre avute tu, ma adesso — forse e finalmente — sono solo per te.
Tecnologico e moderno, attento e pronto alla ricerca di tutto e niente. Mutilato, senza lingua; che era la tua ma con parole che fino in fondo non serviranno, non diranno, non spiegheranno. Incapace di evadere ma prontissimo ad accogliere, impossibile piangere per te, necessario però è tornare, capire, respirare.

Spezzati da un amore che ci ha tenuto incollati per anni, accecati dall’amore che ci ha storditi e salvati, cullati e segnati, ripresi e lanciati il più lontano possibile. E lontano fa paura perché non sai mai quando finisce, quanto fa male e se riuscirai a raggiungerlo.
Ma la bella notizia tra tante, oggi, è che ti ritroverai.
In un viaggio chiamato adozione anche se non si dice così, non si scrive così, non si pronuncia così; proprio come noi.

Figli della fiducia che abbiamo accolto, delle scelte che abbiamo accettato e dei vuoti che nemmeno l’acqua. Nemmeno tutta l’acqua del mare.
Esseri invincibili perché ad ogni sfida abbaiamo dalla nostra parte il cuore, conosciamo la perdita sicura e cosa significa amore.

Così una botte al cuore e una alla memoria.
Un salto nel vuoto e un abbraccio alla ragione.
Un respiro lunghissimo, la certezza che andrà comunque bene.
Stiamo prendendo le misure giuste e ci stiamo lavorando.
Farà schifo e sarà pazzesco,
ma ci stiamo ritrovando.

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