Petali (tu non dici mai così)
La prima cosa a cui ho pensato quando ho pubblicato il mio libro è stata “finalmente hai finito una cosa”.
La seconda è stata un fulmine che ancora la pelle mi brucia: dovrai andare in giro e in giro è pericoloso.
Senza saperlo formulare, senza riuscirlo a dire.
Andare in giro è pericoloso e il pericolo sono io. Pericolo per me perché non trovo risposte valide, pericolo per me perché quelle che trovo mi confondono.
In terza elementare mi piaceva da morire I. perché tutto quello che riusciva a farmi sentire era il profumo dei fiori che mi nascevano ovunque, anche in mezzo alle gambe.
«A te non dà mai fastidio che nel sesso ti deve sempre entrare qualcosa dentro?»
«In che senso dentro?» domanda M., l’acqua di traverso e il cielo terso fuori da noi.
«Dentro nel senso che devi accogliere anche quando hai solo voglia di uscire»
“Finalmente hai finito una cosa”
Però dovrai andare in giro e in giro è pericoloso.
Come quella volta al Famila, quello in fondo alla via principale che adesso non c’è più proprio come te. Il latte, lo yogurt, la passata e via “se ti avanzano dei soldi, prendici quello che vuoi”.
Invece sono cadute sull’asfalto della pianura padana insolente, le monete. Sono cadute e non le ho più raccolte. Sono cadute e non ci ho più pensato.
Poi ero a Pescara e parlavo al telefono con A. che ha gli occhi che sono due buchi e “non ti sembra di avere troppi amici maschi?”. Ero a Pescara, la sera avrei raccontato a cento sconosciuti come avevo fatto a finire una cosa, l’unica cosa della mia vita e lì, sulla passeggiata verso il mare, dopo essere stata accompagnata dalla stazione in albergo, appoggiate le cose sul letto, dormito venti minuti e riso del viaggio in treno lunghissimo, al telefono con A. è successo. Di nuovo.
Che poi è sempre uguale.
Sei tu che cambi e ci aggiungi strati, petali.
Come fuori dalle medie d’estate, come in via Marsala a Brescia che è l’unica che evito da sempre, come sull’autobus mentre andavo a baciarlo a 16 anni, come sul treno di ritorno da Venezia, come sul suo letto anche se avevo detto no, come nel centro storico a Lecce che mi ero persa per uno scherzo, come in corso Buonarotti a Trento, come in quello spogliatoio al lavoro, come a Pescara, come al Famila.
Quello che vogliamo fare è scrivere, amare, ridere, soffrire un poco sì ma poi ricominciare, poi altre notti per dormire. Dico noi perché siamo milioni, con i fiori che in mezzo alle gambe hanno smesso di nascere e spesso appassiscono.
Usciamo di casa e appassiscono. Cerchiamo un lavoro e appassiscono. Amiamo, corriamo al parco dietro a casa, ci fidiamo, diamo tutto, compriamo qualcosa, cerchiamo la gioia, ridiamo fortissimo, cantiamo ai concerti, beviamo, non diamo niente, ci dimentichiamo e appassiscono.
«Tu non stai bene. Ma che discorsi fai?» M. col bicchiere ancora in mano, a ripensarci dopo miliardi di secondi.
«Dico così»
«Tu non dici mai così»
«E come dico di solito?»
«Non dici» e si incrina un po’ la voce di M. e forse anche il respiro
Della terza elementare so che è finita esattamente vent’anni fa. Di I. so che è felice senza di me, anche se è in pericolo quanto me.
Di me so che non dico più le cose come se le aspetta M. ma solo perché non dico più niente. Anche se a Pescara e in piazza sotto casa mi è venuta voglia di usare telefono chiamare il suo numero e dire che non era uscire, mi sbagliavo M., mi sbagliavo di brutto: il verbo era vomitare, era piangere, era urlare, stare male, scappare.
Invece niente, invece sono andata a fare quello che dovevo fare fuori.
Anche se il fuori è pericoloso e il pericolo sono io.
Per me perché ogni volta non capisco.
Per me perché ogni giorno fiorisco.